Roma gusto Kasher

Ho una grande fortuna e non sempre me ne rendo conto. Ho la grande fortuna di essere nato e cresciuto a Roma. Molto spesso non ci penso, ma a volte, quando attraverso viali, vicoli, piazze e piazzette, sento di appartenere ad un club esclusivo di persone che hanno vissuto e scritto pagine immortali della storia dell’umanità. Una metropoli eterna, multiculturale per natura, dove innumerevoli e grandi popoli hanno lasciato, e continuano a lasciare quotidianamente, il segno della loro identità.

Uno dei luoghi dove il mio orgoglio di appartenere a questa ristretta cerchia di fortunati raggiunge vette altissime è sicuramente la porzione di centro compresa tra l’Isola Tiberina, il Ponte Quattro Capi, il Portico d’Ottavia con l’omonima via ed infine la Piazza delle Cinque Scole, ovvero il Ghetto Ebraico.

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Instaurato da Papa Paolo IV Carafa nel 1555 e completamente demolito tra il 1886 e il 1904, il Ghetto di Roma è popolato dalla più antica comunità ebraica d’Europa ed è la testimonianza a cielo aperto di duemila anni di veri ‘romani de Roma’. Tutto trasuda storia in questa parte della città, e la gastronomia locale ne è l’esempio più eclatante.  La cucina giudaico-romanesca, un’ antica tradizione, fusione di due culture gastronomiche diverse ma compatibili, evolute insieme alla storia e proprio per questo con confini difficilmente delimitabili l’una dall’altra ma che hanno prodotto cibi tra i più apprezzati dai romani e non.

Ovviamente, non ci si può immergere nella cucina del Ghetto romano senza tenere presenti le norme alimentari che regolano la relazione tra ebraismo e cibo.  Kasher (o Kosher), che significa ‘permesso’, ‘adatto’ è il termine che sta ad indicare ogni cibo idoneo e l’insieme delle regole alimentari ebraiche, che provengono direttamente dai precetti della Torah, detto Kasherut.  Elencare ogni regola del Kasherut metterebbe a dura prova anche un mago della sintesi, quale io non sono, ma basti ricordare che ogni piatto della tradizione giudaica è stato creato con rigoroso rispetto di tali norme e la cucina giudaico romanesca, per forza di cose, non è esente da questo discorso.

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Oltre che dalle osservanze religiose, la cucina giudaico romanesca è la deliziosa conseguenza di sapori mediterranei e di altre tradizioni giudaiche (toscana e iberica) ma anche il frutto di povertà e limitazioni politiche. Eh si, perché gli Ebrei del Ghetto di Roma hanno veramente fatto di necessità virtù. A loro viene fatta risalire la tradizione del brodo di pesce, oggi considerato una prelibatezza, che nasce dalla vicinanza del ghetto romano alla zona più degradata e più sporca della città, attorno al Teatro di Marcello che, durante il Medioevo, si trasformò in sede del mercato ittico di Roma, grazie alla vicinanza del Tevere e del porto fluviale di Ripa Grande. Tutti gli scarti venivano accatastati nei pressi della chiesa di Sant’Angelo in Pescheria e le donne della comunità andavano alla raccolta delle parti meno nobili del pesce. La cottura con l’acqua era l’unica maniera per creare una pietanza da quegli avanzi e nacque così uno dei piatti migliori della Roma popolare e in particolare del ghetto.

Lo stato pontificio infine nel 1661 stabilì che il pesce autorizzato per le mense ebreaiche dovesse essere quello azzurro, e in particolare le sardine e le acciughe. Questo tipo di pesce, ora tanto pubblicizzato per Omega3 e altre proprietà benefiche, non era ben visto dal governo pontificio e, grazie a  questa geniale intuizione papalina, nacquero gli aliciotti con l’indivia, un tortino fatto di acciughe private della testa e spinate, disposte in una teglia a strati alternati con indivia bianca, cotto al forno con olio e pepe.

Un sentito grazie a Papa Alessandro VII.

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Non vanno poi dimenticati i fritti, materia di cui ogni romano è composto almeno al 50%. Trionfo della cucina ebraico-romanesca, trovano un posto speciale nel mio cuore i carciofi alla giudia. I carciofi cimaroli, variante migliore del carciofo romanesco, provenienti dalla zona che va da Ladispoli e Civitavecchia, venivano preparati dalle donne ebree e cucinati come pietanza spezza digiuno del Kippur, dopo le tradizionali 24 ore di preghiera dedicate all’espiazione. Una volta tolte le foglie esterne, messo a testa in giù, aperto a rosa e fritto la vita vi sembrerà meno dura da affrontare.

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Il vero fiore all’occhiello però, a mio goloso avviso, è la pasticceria giudaico-romana. Monumento di questa tradizione e ambasciata del gusto israelitico in salsa romana è ‘il forno del Ghetto’: Boccione.

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Rigorosamente kasher e rigidamente femminile da sempre, questo forno esprime quanto di meglio può offrire la cultura gastronomica ebraica a Roma. Dolci per tutti i gusti, le ore e le festività (ovviamente ebraiche). Si può cominciare con una colazione a base di cornetti giganti e veneziane (brioche con la crema), proseguendo nel pomeriggio con bruscolini caldi, semi di zucca incrostati di sale che sporgono dalle tielle controllate a vista dalle temibili Signore Boccione. Il venerdì (prima dello Shabbat, giorno di riposo) abbiamo la treccia con zuccherini e ciliegie candite, la challah (il pane del sabato) e i “ginetti”, biscottoni dall’impasto semplice – appena aromatizzato al limone – eccellenti da spezzettare e affogare nel caffellatte. Proseguiamo con la cosiddetta “pizza di beridde”, ovvero panetti dolci preparati con canditi, mandorle, pinoli e uva passa. Il nome viene dall’uso che se ne fa prevalentemente in occasione della nascita di un figlio maschio. Stesso uso per i “biscottini”, dolcetti duri a forma di rondelle, delizia di mandorle, cacao, e cannella.

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Il mio cuore però va a loro, le crostate, il sogno proibito di tante giornate affamate. Torte chiuse, ricoperte di pasta, con ripieno di ricotta e marmellata di visciole o ricotta e cioccolato. Da sole varrebbero il prezzo del biglietto, ce ne fosse uno da pagare.

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Ogni festività fa del forno Boccione il protagonista indiscusso del Ghetto. Ad esempio durante Purim (il carnevale ebraico, per essere sbrigativi) a farla da padrone è il ‘tortolicchio’, mattonella dura di impasto, con miele, mandorle e zuccherini all’anice. Dal 23 al 30 Aprile sarà invece Pesach  (la Pasqua ebraica, durante la quale è proibito il consumo di cibi lievitati) e già si comincia a fare la fila per le ciambellette (biscottini dall’impasto semplice di uova, zucchero, farina e olio), gli amaretti di pasta di mandorle, il pan di spagna (non lievitato) e le famose ‘pizzarelle col miele’, le croccantissime polpette di azzima tritata impastata con cacao, pinoli, uva passa e tuffate nell’olio bollente.

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Passeggiando tra le vie di questo micro universo non puoi non pensare alle difficoltà che la storia ha messo davanti al quartiere e ai suoi abitanti, ma proprio grazie all’analisi delle loro tradizioni gastronomiche ci si rende conto di quanto questo popolo si sia adattato ogni volta alle circostanze più difficili.

Un processo di resilienza culinaria che mi fa sentire ancora più fortunato di appartenere, insieme a loro, a questo meraviglioso club esclusivo chiamato Roma.

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